Anche la minaccia di adire le vie legali può integrare il reato di estorsione se è strumentale a raggiungere un profitto ingiusto

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L’estorsione è un reato grave ed è severamente punito dal nostro ordinamento con pene elevatissime, da cinque a dieci anni nella configurazione semplice e da sette a vent’anni nella forma aggravata.

L’art. 629 del codice penale individua la condotta estorsiva nell’uso di minaccia o violenza per costringere taluno a fare o ad omettere qualche cosa, con il risultato di conseguire un profitto ingiusto, per sé o per altri, in danno di altri.

La minaccia, in particolare, può assumere qualunque forma e può anche consistere in una condotta omissiva, come avviene nell’ipotesi del proprietario di un immobile che rifiuta di stipulare un contratto di locazione nel caso in cui il conduttore non acconsenta a pagare un canone maggiorato rispetto a quello stabilito dalla legge.

La minaccia può addirittura essere implicita, come nell’ipotesi di colui che chiede alla vittima di un furto una somma di denaro per la propria attività di intermediazione nel recupero del bene che gli è stato sottratto indebitamente.

La connotazione di una condotta come minacciosa e la sua idoneità ad integrare l’elemento strutturale del reato vanno valutare in relazione a concrete circostanze oggettive, quali la personalità sopraffattrice dell’agente, le circostanze ambientali in cui lo stesso opera, l’ingiustizia della pretesa e le particolari condizioni soggettive della vittima, poiché più marcata è la vulnerabilità di quest’ultima, maggiore è la potenzialità coercitiva di comportamenti anche solo velatamente minacciosi (Cass. Pen. n. 2702 del 21/01/2016,).

Per quanto riguarda, invece, l’ingiustizia del profitto, questa è esclusa ogni qualvolta esso si fondi su una pretesa tutelata anche solo indirettamente dall’ordinamento giuridico.

Viene dunque da chiedersi se la minaccia di un’azione legale, di per sé legittima, possa integrare una minaccia estorsiva.

La risposta è: dipende!

Secondo la giurisprudenza di legittimità «la minaccia di adire le vie legali, pur avendo un’esteriore apparenza di legalità, può integrare l’elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 629 c.p. quando però sia formulata non con l’intenzione di esercitare un diritto, ma con lo scopo di coartare l’altrui volontà e conseguire risultati non conformi a giustizia», ossia perseguendo «un risultato iniquo, perché ampiamente esorbitante ovvero non dovuto rispetto a quello conseguibile attraverso l’esercizio del diritto, che viene strumentalizzato per scopi “contra ius”, diversi cioè da quelli per cui esso è riconosciuto e tutelato» (cfr. Cass. Pen. n. 5664 del 1974; n. 8731 del 1984; n. 7380 del 1986; n. 47895 del 2014; n. 36365 del 2013).

In un caso recente la Suprema Corte ha ribadito tale orientamento, confermando la sentenza del GUP del Tribunale di Rovigo, il quale aveva assolto dal delitto di estorsione il legale rappresentante di società che, attraverso il legale dell’azienda, aveva diffidato la persona offesa a risarcire la società per i danni procurati a beni aziendali in seguito alla conclusione del rapporto lavorativo, prospettandogli un’azione giudiziaria in caso di mancato pagamento entro un termine perentorio di cinque giorni.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto di dover condividere le motivazioni del GUP, secondo il quale la prospettazione di agire legalmente per il recupero del credito, derivante da danni effettivamente accertati, non poteva configurare una minaccia estorsiva, poiché inidonea a coartare la volontà del debitore, bensì costituiva l’unico mezzo per tutelare i propri diritti riconosciuti e tutelati dall’ordinamento.

Gli ermellini hanno dunque colto l’occasione per riaffermare il seguente principio di diritto: «La minaccia estorsiva può concernere anche l’esercizio di un diritto o di una facoltà legittima in quanto essa, anche se apparentemente non è ingiusta, diventa tale nel momento in cui è finalizzata a conseguire un profitto non dovuto, quando cioè l’esercizio del diritto sia strumentalizzato per la realizzazione di un fine diverso da quello per il quale esso è riconosciuto» (Cass. Pen., II Sez., sentenza n. 5093 del 2/02/2018).

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