Il concetto di “privata dimora” nel furto commesso in un ristorante, in uno stabilimento industriale o in uno studio professionale durante l’orario di chiusura pomeridiana
Il caso riguarda un furto commesso in un ristorante durante l’orario di chiusura pomeridiana. Dopo essere stato condannato in primo grado e in appello per il reato di furto in abitazione –punito molto più pesantemente rispetto ad un furto semplice- la difesa proponeva ricorso per Cassazione denunciando violazione di legge nella parte in cui i giudici avevano considerato il ristorante un luogo di “privata dimora”, e rilevandosi sul punto un contrasto in giurisprudenza. L’orientamento maggioritario ricomprende nel concetto di privata dimora tutti i luoghi non pubblici nei quali le persone si trattengano per compiere, anche in modo transitorio, atti della vita privata, intendendo con questo non solo atti della vita intima e familiare, ma anche lo svolgimento dell’attività professionale o lavorativa. Sussiste la privata dimora ogni volta che il titolare dello stabile ha la possibilità astratta di inibire l’accesso al pubblico, senza escludere che in determinate ore del giorno ne sia consentito il libero accesso.
Le Sezioni Unite per contro hanno sancito che in esercizi commerciali, studi professionali, stabilimenti industriali, e in generale in luoghi di lavoro, specie allorché la condotta sia posta in essere in orario di chiusura al pubblico della sede lavorativa e, in particolare, in assenza di persone dedite a una qualche attività o mansione all’interno di tali luoghi in detti orari, non possa configurarsi il furto in abitazione.
Lo scopo sotteso all’introduzione da parte del Legislatore di questa versione aggravata del furto sta nella tutela di luoghi in cui l’individuo dovrebbe sentirsi più sicuro da intrusioni esterne e in cui potrebbe sentirsi più indifeso di fronte l’aggressione altrui; valori questi garantiti nella tutela del domicilio. I luoghi di lavoro, dunque, potrebbero rientrare nella fattispecie in esame solo qualora fossero caratterizzati dai requisiti propri dell’abitazione, ossia quelli di riservatezza, stabilità e non accessibilità da parte di terzi.
La palla a questo punto passerà al singolo giudice comune, al quale spetterà valutare nel caso concreto la configurabilità o meno di tali criteri, lasciando lo spazio dunque a possibili incertezze e discrezionalità.
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