In tema di responsabilità medica: il danno da c.d. perdita di chance per il ritardo nell’esecuzione di esami diagnostici necessari per rilevare patologie in atto
Perdere un proprio caro a causa di una malattia incurabile è già di per sé un trauma difficile da superare, ma, ancora di più, lo è sapere di aver subito questa perdita prima del tempo.
Purtroppo accade spesso che diagnosi superficiali e scorrette od un ritardo nell’esecuzione di esami diagnostici necessari per rilevare patologie in atto (spesso legati alle infinite liste d’attesa del SSN), incidano sulla tempestività delle diagnosi e, conseguentemente, sulle chance di sopravvivenza di un malato o, comunque, sulla residua durata della sua esistenza segnata da una patologia incurabile e dall’esito necessariamente mortale.
Cosa dice la legge a tal proposito?
La legge in verità non si pronuncia sul tema, ma lo ha fatto (e continua tutt’ora a farlo) la giurisprudenza, con un susseguirsi di pronunce di grande spessore.
La Corte di Cassazione riconosce ormai da anni, ed in diversi settori, il c.d. “danno da perdita di chance”, consistente nella perdita della possibilità di conseguire un determinato bene, fondata su una ragionevole e legittimità aspettativa e non su una semplice aspettativa di fatto.
In particolare, nell’ambito della responsabilità medica, esso deriva da un comportamento del sanitario idoneo a incidere sulla durata della vita del paziente o sulla sua qualità, qual è, ad esempio, il ritardo nella diagnosi di un processo morboso, che non consenta un intervento medico-chirurgico necessario al paziente, non per forza per aver salva la vita, ma anche soltanto per poter affrontare l’ultimo periodo della sua vita in maniera decorosa e dignitosa o, addirittura, per vivere più a lungo.
La Corte di cassazione, con la nota sentenza n. 16993 del 20 agosto 2015, ha stabilito che l’omessa diagnosi assume rilevanza a fini risarcitori anche nel caso in cui dall’intervento chirurgico non sarebbe comunque derivata la permanenza in vita al paziente.
Il danno da perdita di chance va determinato equitativamente dal giudice tenendo conto delle effettive possibilità di sopravvivenza o di miglioramento della qualità della vita del paziente che sarebbero potute conseguire a un comportamento non viziato da un errore medico.
Si segnala, a tal proposito, un caso affrontato recentemente dal Tribunale di Milano, che ha portato alla condanna di un Istituto clinico al risarcimento dei danni da perdita di chances alla figlia di un paziente, il quale, correttamente operato per una neoplasia vescicale, era deceduto l’anno successivo a causa di una grave recidiva, non tempestivamente diagnosticata a causa della negligenza del personale medico che l’aveva in cura, il quale non aveva mai disposto un trattamento chemioterapico o radioterapico e neppure una visita di controllo da uno specialista oncologo per valutare l’opportunità di seguire dei trattamenti terapeutici atti proprio ad evitare recidive.
L’attrice lamentava, dunque, che la grave recidiva, essendo stata tardivamente e diagnosticata a causa della negligente condotta dei medici, aveva portato il padre ad un prematuro decesso e chiedeva, pertanto, sia il risarcimento dei c.d. “danni iure hereditatis” (danni sorti direttamente nella sfera giuridica della vittima mentre era in vita e trasmessi in via ereditaria ai successori), consistenti nella perdita di chances di vivere meglio durante il decorso della malattia seguendo adeguate cure mediche e predisponendosi meglio alle ordinarie esplicazioni della vita in vista dell’esito finale nonché di vivere più a lungo, sia dei c.d. “danni iure proprio” (danni sorti direttamente nella sfera giuridica dei successori), consistenti nel danno derivante dal minor tempo trascorso con il proprio genitore.
La CTU disposta nel corso del processo ha effettivamente accertato che, nonostante la correttezza esecuzione dell’operazione chirurgica, la mancata immediata somministrazione di un trattamento chemioterapico o radioterapico su un paziente che presentava un fattore di rischio elevato aveva verosimilmente causato, o concausato, il verificarsi della recidiva, la quale, in mancanza di regolari controlli (mai prescritti o suggeriti al paziente), era stata anche tardivamente diagnosticata.
Tuttavia, posta la gravità della patologia oncologica e la riscontrata scarsa percentuale di sopravvivenza, la terapia, anche se tempestivamente prestata, verosimilmente non avrebbe ottenuto la guarigione del paziente, bensì soltanto ne avrebbe consentito una sopravvivenza più lunga, da pochi mesi ad 1 o 2 anni al massimo.
Ciononostante, anche solo una minima capacità di prolungare la vita del paziente meritava di essere apprezzata sotto il profilo della chance risarcibile.
Il Tribunale ha quindi ritenuto equo riconoscere tale danno da perdita di chance di una migliore qualità della vita, distinguendolo dal danno alla salute e così confermando quanto affermato già in precedenza affermato dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. civ. 20.8.2015, n. 16993 e Cass. civ., sez. III, 29/11/2012, n. 21245, in Ragiusan, 2013, 354-356, 263).
Tale danno, infatti, non dipende dall’evento morte o dall’evento lesione alla salute, ma si distingue da essi perché attiene alla mera possibilità di avere una chance di vita migliore e di sottoporsi a cure più idonee, o anche soltanto di vivere più a lungo.
Quanto al danno iure proprio allegato dalla attrice, figlia unica del defunto, il Tribunale di Milano, conformandosi alla giurisprudenza maggioritaria, ha riconosciuto in via astratta la configurabilità di tale tipologia di danno, poiché non può negarsi che la morte di uno stretto congiunto possa provocare una sofferenza umana di apprezzabile rilievo.
Se tale evento morte è riconducibile ad un comportamento colposo della struttura sanitaria convenuta, il relativo danno è risarcibile ai sensi degli artt. 185 c.p. e 2043 c.c..
Tuttavia, nella liquidazione dello stesso bisogna vagliare in concreto quale sia stata, da un lato, la sofferenza patita dal congiunto e, dall’altra, la compromissione della sfera affettiva familiare, la quale dipende dall’intensità del vincolo familiare, dalle abitudini di vita, dalle condizioni soggettive della vittima e del congiunto, dal grado di parentela, dalle rispettive età, dall’eventuale convivenza in essere al momento del decesso e di ogni altro indice che la parte interessata abbia ritenuto rilevante.
La prova del danno subito è a carico della parte che lo lamenta.
Nel caso trattato dal Tribunale di Milano, tuttavia, parte attrice ha lamentato di avere trascorso un tempo minore in compagnia del congiunto, ma non è riuscita a dimostrare elementi di particolare prossimità rispetto alla figura paterna diversi dal solo fatto del vincolo parentale (convivenza, presenza della stessa in occasione dei ripetuti ricoveri, ecc.) e, per tale ragione, non le è stato riconosciuto il risarcimento del danno iure proprio.
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