La rilevanza del momento consumativo del delitto di “disastro innominato colposo” incide sulla decorrenza dei termini di prescrizione del reato
Il delitto di cui all’art. 434 c.p., definito volgarmente “disastro innominato”, è reato di comune pericolo che mira a tutelare l’incolumità pubblica sanzionando tutti quei comportamenti, di qualunque tipo (anche omissivi), idonei a provocare un evento pericoloso per un numero indeterminato di persone.
Si parla di reato di pericolo in quanto si richiede soltanto la messa in pericolo del bene protetto, senza che sia necessaria la realizzazione di un vero e proprio evento di danno nella realtà fenomenica.
Il nostro legislatore ha introdotto questa norma a chiusura ed integrazione del sistema, al fine di colmare le lacune dell’ordinamento in ordine alla protezione dell’incolumità pubblica, allorché non siano applicabili ipotesi criminose diverse e più specifiche.
Si tratta di un classico “delitto di attentato” in quanto la tutela penale è anticipata già nel momento in cui si configura il compimento di atti idonei diretti univocamente a cagionare un pericolo per la sicurezza pubblica, nella specie il pericolo di verificazione del disastro.
Qualora tale disastro si realizzi, però, dottrina ed in giurisprudenza non sono concordi circa la qualificazione giuridica della fattispecie, che per alcuni prevederebbe una figura autonoma di reato, per altri una mera circostanza aggravante, con evidenti conseguenze in termini di prescrizione e di eventuale giudizio di bilanciamento con altre circostanze.
Per la tesi tradizionale, il fatto di provocare in concreto un “altro disastro” costituirebbe una semplice circostanza aggravante, soggetta ad un eventuale bilanciamento con altre circostanze favorevoli, che non incide sul decorso della prescrizione, il cui termine inizia a decorrere a partire dalla condotta diretta a determinare il disastro.
Invece, secondo un’altra tesi più innovativa, il delitto di disastro doloso con evento verificatosi costituirebbe un reato autonomo di danno, con la conseguenza di far coincidere il decorso del termine prescrizionale con il momento in cui si verifica l’evento di disastro.
I giudici di legittimità hanno accolto il primo l’orientamento, ossia quello che considera il comma 2 dell’art. 434 c.p. una circostanza aggravante, ma hanno ritenuto comunque necessario considerare l’evento aggravatore del disastro ai fini della data di consumazione del reato e del decorso del termine prescrizionale.
In conclusione, secondo la Suprema Corte bisogna far coincidere la data di consumazione del delitto con il momento in cui l’evento aggravatore del disastro si è in concreto verificato, senza confondere però l’evento pericoloso con gli effetti che ne sono derivati.
“Nell’ipotesi di cui all’art. 434, co. 2, c.p. la realizzazione dell’evento di disastro funge da elemento aggravatore. Tuttavia, ciò non comporta che, ai fini dell’individuazione della data di consumazione del reato e della decorrenza dei termini di prescrizione, l’evento descritto non debba essere considerato. Invero, la data di consumazione del reato coincide comunque con il momento di cessazione delle condotte pericolose che danno origine ed alimentano la situazione di pericolo, momento in cui l’evento di disastro raggiunge il suo apice massimo di gravità” (Cass. pen. Sez. I, 23 febbraio 2015 – Cortese, presidente – Di Tomassi, estensore – Iacoviello, p.g. – Schmidheiny, ricorrente).
Un esempio concreto può aiutare a comprendere l’enorme portata di questa presa di posizione.
Recentemente, la Corte d’Appello milanese, conformandosi all’orientamento della giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha assolto due ex amministratori della Fibronit S.p.A. (poi s.r.l.) dai delitti di disastro innominato colposo aggravato dalla previsione dell’evento proprio per intervenuta prescrizione.
I due imputati erano accusati di aver omesso le misure preventive e di sicurezza necessarie per contenere l’esposizione ad amianto degli operai impiegati nello stabilimento di Broni, così cagionando non solo un disastro ambientale, ma anche causando plurimi decessi e l’insorgenza di patologie asbesto-correlate tra i soggetti esposti all’agente cancerogeno.
Il GUP del Tribunale di Pavia in primo grado li aveva condannati perché aveva ritenuto che il momento consumativo del delitto dovesse identificarsi con il raggiungimento del c.d. “picco di mortalità” tra i soggetti esposti all’agente cancerogeno.
Secondo il GUP, dunque, rientrano nel concetto di “evento disastroso” di cui all’art. 434 c.p. anche tutte le conseguenze dell’immissione nell’ambiente di fibre di amianto e, dunque, tutte le morti e le lesioni verificatesi successivamente a tale rilascio.
Secondo la Corte di Appello, invece, le lesioni e le morti verificatesi negli anni successivi alla cessazione della produzione di amianto nello stabilimento di Broni non hanno alcun rilievo ai fini dell’individuazione del momento consumativo del delitto in questione, ma rappresentano esclusivamente un indice della pericolosità concreta dell’evento disastroso, che, però, si è già pienamente consumato nel momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione dell’amianto.
Posto che la produzione dell’amianto nello stabilimento era cessata già nel 1993, i giudici di secondo grado hanno dichiarato estinto il reato di disastro innominato colposo contestato ai due imputati per intervenuta prescrizione.
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