Lo screenshot è prova documentale anche se priva di attestazione ufficiale che ne confermi l’autenticità utilizzabile dal giudice nel processo penale ai fini della decisione
Lo “screenshot” altro non è che un file immagine che riproduce fedelmente la schermata di un dispositivo mobile, generalmente uno smartphone, sostanzialmente fotografandola.
Si è a lungo discusso sul valore probatorio di questo documento all’interno del processo penale o civile.
Basti pensare a chi è stato diffamato su un social network ed ha a disposizione per provare tale fatto solo ed esclusivamente lo screenshot della pagina web ove sono state pubblicate le espressioni diffamatorie.
O ancora, a chi vanta un credito ma può provarlo solo attraverso le conversazioni intervenute via whatsapp con il debitore.
In una società come quella attuale, dove le persone comunicano prevalentemente tramite applicazioni di messaggistica istantanea e condividono ogni loro pensiero sui social network, è facile comprendere come questi strumenti possano rivelarsi preziosi alleati in Tribunale.
Lo screenshot è sempre stato equiparato ad una riproduzione meccanica e, per tale ragione, si è ritenuto che potesse costituire una prova solo nell’ipotesi in cui non fosse oggetto di contestazione da parte dell’avversario, circostanza questa del tutto improbabile.
Per aggirare tale ostacolo sono stati però elaborati alcuni espedienti, quali, ad esempio, quello di far visionare la schermata incriminata ad una terza persona od alle stesse Forze dell’Ordine, chiamandoli poi in giudizio a testimoniare su quanto da loro direttamente percepito.
In alternativa, ci si rivolgeva ad un notaio che verificava ed attestava la corrispondenza tra la stampa della videata e il video del computer o dello smartphone, fornendo una specie di autentica della stessa.
Tuttavia, è da segnalarsi una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione (sentenza n. 8736/2018), avente ad oggetto un caso di diffamazione in relazione al quale era imputato il direttore di una testata giornalistica online per aver redatto e pubblicato un articolo diffamante nei confronti di un personaggio politico.
In primo grado l’imputato è stato condannato, salvo poi essere assolto in secondo grado dalla Corte d’Appello, che ha ritenuto la prova principe, ossia la produzione documentale di uno screenshot, assolutamente priva di valore probatorio, in quanto non autenticata da un notaio.
Il caso è così giunto avanti la Suprema Corte di Cassazione, la quale, ribaltando la tesi sostenuta dalla Corte d’Appello, ha qualificato lo screenshot come un documento informatico valido come prova documentale e riconducibile alla categoria di cui all’art. 234 c.p.p.
La Corte ha, infatti, stabilito che: “i dati di carattere informatico contenuti in un computer rientrano tra le prove documentali e per l’estrazione di questi dati non occorre alcuna particolare garanzia; di conseguenza ogni documento acquisito liberamente ha valore di prova, anche se privo di certificazione, sarà poi il giudice a valutarne liberamente l’attendibilità”.
Il principio di diritto affermato nella sentenza in commento è chiaro: la copia cartacea di una schermata telematica è da ritenersi prova documentale anche se priva di attestazione ufficiale che ne confermi l’autenticità.
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