Non risulta legittima la revoca automatica della patente disposta dal Prefetto nei confronti di chi ha riportato una condanna per reati attinenti le sostanze stupefacenti

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La Corte Costituzionale con la recente sentenza del 9 febbraio 2018, n. 22 si è pronunciata su una questione particolarmente critica, riguardante la revoca della patente disposta dal Prefetto obbligatoriamente ai sensi dell’art. 120 C.d.S. in presenza di una condanna in sede penale per reati attinenti le sostanze stupefacenti, disciplinati agli artt. 73 e 74 del D.P.R. n. 309/1990.

In particolare, questa disposizione, da una parte, dispone che non possono conseguire la patente di guida i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, né coloro che sono o sono stati sottoposti a misure di sicurezza personali, né infine le persone condannate per i reati in materia di stupefacenti di cui agli artt. 73 e 75 del T.U. sugli stupefacenti, (fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi), dall’altra, dispone che se le suddette condizioni soggettive si realizzano successivamente al rilascio della patente di guida, il prefetto deve obbligatoriamente provvedere alla revoca della patente di guida.

È bene evidenziare che anche il D.P.R. n. 309/1990 sugli stupefacenti, all’art. 85, prevede la possibilità per il giudice penale di applicare, in caso di condanna per uno dei reati previsti dal T.U., la pena accessoria del ritiro della patente fino a tre anni.

Tuttavia, mentre il “ritiro” della patente ha mero carattere temporaneo e comporta la restituzione del titolo di circolazione una volta che siano state adempiute determinate prescrizioni (cfr. art. 216 C.d.S.), ovvero sia trascorso un determinato periodo di tempo (cfr. art. 85 d.p.r. n. 309/1990), la “revoca” della patente comporta, invece, la definitiva perdita del titolo di circolazione, obbligando dunque il soggetto che l’abbia subita, una volta che sia trascorso un certo periodo di tempo ovvero che siano stati riottenuti i requisiti di idoneità richiesti, a conseguire una nuova patente di guida (cfr. art. 219 C.d.S.).

Inoltre, la revoca della patente di guida disposta in via amministrativa dal Prefetto è automatica e necessitata per tutti i casi di condanna per i reati di cui agli artt. 73 e 74 del T.U sugli stupefacenti, mentre la più tenue pena accessoria del ritiro della patente (per un massimo di tre anni) prevista dall’art. 85 D.P.R. n. 309/1990 può eventualmente essere comminata dal giudice penale in sede di condanna quando ritiene che il titolo di guida possa essere strumentale al reato commesso o possa agevolare la commissione di nuovi reati.

Il caso di specie riguardava una donna che, condannata nel 2009 ai sensi dell’art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990, per alcuni reati commessi nel 2007, quando la stessa versava in condizioni di tossicodipendenza e di grave disagio familiare, nel 2015 veniva colpita dal provvedimento prefettizio di revoca della patente in ragione della presunta perdita dei “requisiti moraliex art. 120 C.d.S..

Dunque, il provvedimento di revoca della patente era stato disposto in relazione ad una condanna penale riguardante fatti assai risalenti, avvenuti ben 8 anni prima (quando ancora peraltro non era intervenuta la L. 94/2009 cd. Pacchetto Sicurezza a riformare i primi due commi dell’art. 120 C.d.S.), bensì la donna si era vista revocare la patente senza che fosse stato preventivamente disposto un accertamento medico-sanitario circa il suo reale stato di salute (tossicodipendenza) e, quindi, circa la concreta ed effettiva insussistenza dei requisiti morali richiesti per poter conservare la patente di guida.

La donna, ritenendo di aver invece superato la sua condizione di tossicodipendente e di avere necessità di utilizzare l’autovettura per adempiere ai propri doveri genitoriali, si rivolgeva al Tribunale di Genova per ottenere la disapplicazione del provvedimento di revoca della patente di guida, con l’ulteriore richiesta di sollevare, se necessario, avanti la Corte Costituzionale una questione di legittimità dell’art. 120 C.d.S. in relazione agli artt. 3, 16, 25 e 117 Cost.

Il Tribunale di Genova accoglieva il ricorso ex art. 700 c.p.c., qualificando la revoca della patente di cui all’art. 120 C.d.S. una vera e propria sanzione penale, anche se disposta da un’autorità amministrativa (il Prefetto) e, pertanto, sottoposta alle regole vigenti in ambito penale e, in particolare, al divieto di applicazione retroattiva di una norma penale in malam partem, ossia sfavorevole.

Il Tribunale di Genova, infatti, riconoscendo che i fatti erano risalenti al 2007, prima della modifica dell’art. 120 C.d.S. ad opera del Pacchetto Sicurezza del 2009, aveva ritenuto inapplicabile tale disposizione al caso di specie in virtù del principio dell’irretroattività della legge penale sfavorevole di cui agli artt. 25, comma 2, Costituzione e 2, comma 1, c.p.

L’avvocatura dello Stato, tuttavia, proponeva reclamo ed il Tribunale in composizione collegiale di Genova, ritenendo non manifestamente infondata la questione di costituzionalità proposta dalla ricorrente, con ordinanza del 16 giugno 2016, rimetteva il caso alla Corte costituzionale, motivando sotto un duplice profilo.

Da una parte, i giudici rimettenti insistevano sull’argomento dell’irretroattività e, dunque, dell’inapplicabilità dei primi due commi dell’art. 120 C.d.s. in relazione a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della L. 94/2009, trattandosi di vera e propria sanzione sostanzialmente penale.

Dall’altra, tacciavano la disciplina di «[…] irragionevolezza e di […] disparità di trattamento, posto che sarebbe del tutto irragionevole prevedere la revoca amministrativa della patente in via automatica per tutti i casi di condanna per i reati di cui agli artt. 73 e 74 D.P.R. n. 309/1990, laddove invece l’art. 85 D.P.R. n. 309/1990 prevede che il giudice penale possa valutare discrezionalmente se applicare o meno la più tenue pena accessoria del ritiro della patente, per un massimo di tre anni.

La Corte Costituzionale, richiamando ulteriori precedenti della giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto la prima doglianza infondata, poiché la revoca della patente, nei casi previsti dall’art. 120 in esame, non ha natura sanzionatoria, né costituisce conseguenza accessoria della violazione di una disposizione in tema di circolazione stradale, ma rappresenta la mera constatazione della sopravvenuta insussistenza dei «requisiti morali» prescritti per il conseguimento od il mantenimento della patente di guida.

Per tale ragione la revoca in via amministrativa della patente non deve sottostare alle regole del diritto penale e sarà applicabile anche a fatti commessi anteriormente alla entrata in vigore della disposizione impugnata, per i quali la condanna sia però comunque intervenuta dopo tale data.

Dall’altra parte, tuttavia, la Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la seconda questione relativa all’automatismo della revoca della patente, da parte dell’autorità amministrativa, in caso di sopravvenuta condanna del suo titolare, per reati in materia di stupefacenti, per violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., per un duplice ordine di motivi.

Innanzitutto perché l’art. 120 C.d.s. dispone in merito ad una varietà di situazioni non omogenee tra loro e, anzi, potenzialmente diversissime, atteso che la condanna a cui la norma ricollega l’automatica applicazione della revoca amministrativa della patente può riguardare reati di diversa, se non addirittura, di lieve entità.

Inoltre, la disposizione è irragionevole proprio in quanto prevede l’automatismo della revoca prefettizia della patente, a fronte invece della mera facoltà del giudice penale di disporne il ritiro qualora lo ritenga opportuno.

Per tali ragioni la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’esaminato comma 2 dell’art. 120 C.d.S., nella parte in cui dispone che il prefetto «provvede» − invece che «può provvedere» − alla revoca della patente di guida, in caso di sopravvenuta condanna del suo titolare per reati di cui agli artt. 73 e 74 del D.P.R. n. 309 del 1990.

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