Qual è la linea di confine tra il reato di abuso dei mezzi correttivi e disciplinari e maltrattamenti in ambito scolastico?

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La cronaca giornalistica sempre più frequentemente tratta di casi di abusi e maltrattamenti perpetrati da insegnanti in danno di alunni minorenni, spesso all’interno di scuole materne ed asili nido.

Il nostro codice penale punisce aspramente queste condotte, riconducendole in particolare a due fattispecie: abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.) e maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.).

In verità non è sempre agevole cogliere la differenza tra i due reati, posto che alcune condotte possono astrattamente configurarli entrambi.

Le difficoltà maggiori si presentano proprio quando gli abusi ed i maltrattamenti vengono posti in essere da insegnanti, apparentemente con scopi educativi.

In tali situazioni, infatti, si tende a valorizzare il fine educativo per qualificare la condotta come abuso dei mezzi correttivi o disciplinari, fattispecie meno gravemente sanzionata rispetto ai maltrattamenti contro familiari e conviventi.

In passato, pertanto, se era presente l’intento correttivo, si tendeva a riconoscere l’ipotesi di cui all’art. 571 c.p., in caso contrario quella di cui all’art. 572 c.p.

Tale interpretazione trovava la sua ragion d’essere nella concezione dell’epoca, secondo la quale l’utilizzo della forza come mezzo correttivo, purché modico e posto in essere attraverso mezzi leciti ed entro determinati limiti, era pienamente legittimo.

Più di recente la giurisprudenza ha fortunatamente modificato il proprio orientamento, sulla scia di un’evoluzione storico-sociale che oggi rinnega l’uso della violenza come strumento di correzione e di educazione e che è stata poi consacrata in diversi testi normativi, nazionali ed internazionali.

A tal proposito, i giudici di legittimità, partendo dal presupposto che il termine “correzione” è sinonimo di educazione, ritengono che sia ipotizzabile il reato di abuso dei mezzi di correzione solo nell’ipotesi in cui siano utilizzati mezzi non illeciti di per sé, poiché si può ipotizzare un abuso solo nel caso in cui sia lecito l’uso!

In conclusione, la Suprema Corte ritiene integrato il reato di abuso dei mezzi di correzione ed educazione solo nel caso in cui vi sia un mero eccesso di metodi educativi leciti, ossia qualora l’uso consentito e legittimo dei mezzi educativi, senza attingere a forme di violenza, abbia trasmodato in abuso a causa dell’eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura.

Con riferimento al contesto scolastico, la giurisprudenza è assolutamente granitica nel ritenere che l’uso della violenza finalizzato a scopi educativi non possa mai esser considerato abuso di un mezzo educativo lecito, in quanto non può ragionevolmente perseguirsi l’obiettivo di garantire un armonico ed equilibrato sviluppo della personalità del minore utilizzando un mezzo violento che ne contraddice l’essenza.

Ne consegue che, affinché possa essere configurato il reato di abuso dei mezzi di correzione in luogo del reato di maltrattamenti, la risposta dell’insegnante, anche se sproporzionata alla condotta da correggere, non può mai consistere in trattamenti violenti, lesivi dell’incolumità fisica o afflittivi della personalità del minore, a nulla rilevando l’intenzione dell’insegnante di agire solo con finalità rieducative.

In conclusione è l’abuso, e non lo scopo che anima l’agente, l’elemento caratterizzante il fatto di reato, cosicché “ai fini della distinzione tra il delitto di maltrattamenti (art. 572 c.p.) e quello di abuso di mezzi di correzione (art. 571 c.p.) non rileva la finalità avuta di mira dal reo, sicché non importa se questi abbia agito per scopi ritenuti educativi; quel che rileva è unicamente la natura oggettiva della condotta, sicché non è configurabile il meno grave reato di abuso dei mezzi di correzione quando i mezzi adoperati siano oggettivamente non compatibili con l’attività educativa, come nel caso di percosse e maltrattamenti fisici e psicologici” (Cass. Pen., 22.9.2005; Cass. Pen., 18.3.1996; Cass. Pen., 7.2.2005).


 

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